Quota 600 è il livello che indica quei Paesi, quei sistemi sanitari, che sanno curare bene l’infarto. Significa, secondo le raccomandazioni delle società cardiologiche internazionali, che ogni anno vengono eseguiti 600 angioplastiche primarie ogni milione di abitanti. A questo traguardo, in Europa, è arrivata soltanto la Germania, ma l’Italia è seconda, a quota 583, a pochi passi dall’obbiettivo. Un risultato che è stato festeggiato a Firenze dalla Società italiana di cardiologia interventistica (Gise), al secondo appuntamento “Thinkheart”, un convegno che è ha lo scopo di valutare lo stato dell’arte del settore, sia dal punto di vista clinico che sanitario. L’angioplastica coronarica primaria, lo ricordiamo, è un intervento d’urgenza, che deve essere effettuato nelle prime sei ore dopo l’infarto, e al massimo entro 12 ore, per riaprire le coronarie occluse che hanno provocato il danno, attraverso l’inserimento transcatetere (attraverso un’arteria e da qui fino al cuore) di un “palloncino” e successivamente di uno stent, cioè di una struttura rigida che mantenga il vaso aperto. La diffusione dell’angioplastica primaria per fronteggiare l’infarto del miocardio è un indice non solo di capacità clinica, ma anche di buona organizzazione ospedaliera. Ed è anche una buona notizia per il paziente, che scampa il pericolo con un intervento “dolce” e poco invasivo.

Nessuna regione è lontana dalla media nazionale

«Le angioplastiche primarie nel 2016 sono stare 35.355 e sono triplicate in 15 anni – dice Giuseppe Musumeci , presidente del Gise (Gruppo Italiano di studi emodinamici) -. Ciò mi porta ad affermare che il nostro sistema sanitario garantisce a ogni persona colpita da infarto la miglior cura possibile in termini di efficacia e appropriatezza». Questo vale proprio per tutti, in tutta Italia? «Ci sono delle differenze, naturalmente, tra le diverse regioni in cui è articolato il nostro sistema sanitario – risponde Musumeci -. Se ne fanno più in Lombardia e in generale nel Nord che altrove, ma a differenza di altri settori della medicina nessuna regione è lontana dalla media nazionale. Questo è anche merito della nostra attività di monitoraggio: noi abbiamo raccolto i dati delle angioplastiche dalla fine degli anni ‘80 e questo ha permesso di valutare anno per anno chi era indietro e doveva fare uno sforzo per mettersi in pari e chi era avanti, quali erano i centri di eccellenza e di riferimento, che potevano svolgere un’attività formativa per gli altri centri».

 La miglior efficacia si ottiene nelle prime sei ore

L’azione di metodica raccolta dati e di “autocontrollo” del lavoro effettuato viene considerata il fiore all’occhiello del Gise, che infatti, proprio a Firenze, ha solennemente aperto e offerto al mondo scientifico e alle autorità sanitarie il proprio database di oltre 25 anni, che valuta 353mila interventi effettuati in 266 centri in tutta Italia. Un “tesoretto” elettronico che può rivelarsi utile per le scelte dei decisori e di tutti coloro (dalle industrie ai malati) che sono coinvolti. Tanti, e importanti, dati quantitativi. Ma la qualità? Chi garantisce insomma che i risultati dell’angioplastica siano migliori di quelli delle cure tradizionali, come si valuta chi fa meglio di altri? «La garanzia viene dalla letteratura scientifica internazionale – risponde Musumeci -. Nel nostro campo la quantità è qualità. E sappiamo che in emodinamica le differenze qualitative sono minori che in altri settori. Per questo basta dire che la mortalità da infarto a 30 giorni è del 30% senza angioplastica, del 4% dopo angioplastica primaria». Ma la miglior efficacia si ottiene nelle prime sei ore. Quanti interventi si effettuano in questo periodo? «Non abbiamo purtroppo dati di questo tipo perché gli ospedali registrano solo il numero di angioplastiche. Secondo una nostra valutazione i due terzi avvengono nel periodo ottimale, gli altri tra la sesta e la dodicesima ora. Poi non esiste una tredicesima ora per l’intervento di angioplastica primaria».

Sostituzione della valvola aortica

Se appaiono eccellenti i risultati riguardo a questa procedura, non altrettanto trionfanti sono i dati italiani di altri interventi meno invasivi di cardiologia interventistica, come la sostituzione della valvola aortica (Tavi), la riparazione della valvola mitralica (Mitraclip) o la chiusura dell’auricola sinistra, utilizzata per curare la fibrillazione atriale. Anche se la quantità di questi interventi sta crescendo in modo esplosivo, i numeri restano bassi. Il più diffuso di essi per esempio, la Tavi, ha raggiunto quota 4.592 interventi nel 2016, con un aumento del 37% in un solo anno, ma siamo ancora lontani da altri Paesi. «Qui c’è un problema di costi – dice Musumeci -. Questi interventi sono più costosi per il prezzo dei materiali utilizzati e i bilanci degli ospedali, assieme all’abitudine alla chirurgia tradizionale, fanno resistenza. Se consideriamo per esempio la sostituzione della valvola aortica, oggi costa 2mila euro con i metodi tradizionali e 20mila con l’intervento transcatetere. I risultati clinici sono sovrapponibili. Ma c’è da considerare anche i tempi di degenza molto più brevi nel secondo caso. E soprattutto l’enorme valore per il paziente che non si ritrova con il petto squarciato e può tornare molto prima alla sua vita normale. Ci vorrà tempo, ma alla fine questo tipo di interventi prevarrà, come è avvenuto con l’angioplastica».

Fonte: http://www.corriere.it/salute/cardiologia/17_aprile_25/paesi-che-curano-meglio-l-infarto-l-italia-vicinissima-traguardo-15a08eb4-299f-11e7-9909-587fe96421f8.shtml